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Tiempo de morir, la firma di Gabo sul grande schermo


Proiezione a inviti in un cineclub messicano

«Il mio rapporto con il cinema? Come una coppia che non può vivere separata, ma neanche stare insieme». Parole quasi di rimpianto quelle che Garcia Marquez, nel 1981, affidò alla rivista americana Paris Review. Perché c’è stato un “prima” nella storia di Gabo, prima che si accendessero tutti i riflettori sul suo talento. Un prima che ha a che fare col cinema, appunto. Ma quel fiore non è mai sbocciato come, probabilmente, avrebbe meritato. Perché Gabo ha scritto anche sceneggiature. Una in particolar modo. Per un western, uscito nel 1966, l’anno prima della pubblicazione di Cent’anni di solitudine.

La locandina di Tiempo de morir (1966)

Non si può sfuggire al proprio passato

Il titolo del film è Tiempo de morir (A time to die), prima regia per il messicano Arturo Ripstein, che aveva mosso i primi passi dietro la macchina da presa accanto a Luis Bunuel. E diciamolo subito, non fu un gran successo. La trama è lineare: il protagonista, Juan Sayago, torna al suo villaggio dopo aver scontato in prigione una condanna a 18 anni per aver ucciso in duello un allevatore di cavalli. Sayago vuol solo tornare ad avere una vita normale, ma i figli dell’uomo che ha assassinato sono decisi a vendicare la morte del padre. «Mi piace la semplicità della storia – raccontava Gabo parlando del film – che ha ancora intatta la sua forza. Un uomo si sveglia la mattina e non sa che è già morto. E non c'è niente, nessuna buona fortuna o sforzo d’intelligenza che può impedire che si compia il suo destino. Perché nessuno può sfuggire al proprio passato».

Una scena di Tiempo de morir

1966-2016: passerella a Cannes

Una pellicola comunque importante, appena riscoperta (nel cinquantenario) dal Festival di Cannes, che l’ha inserita nella sezione Classics dell’ultima mostra. «Tiempo de morir ha tutte le debolezze dell’esordio – scrive Quinlan, rivista di critica cinematografica (quinlan.it/2016/05/15/tiempo-de-morir) -: una certa schematicità strutturale, una recitazione non sempre all’altezza della situazione, l’occhio del regista che vibra di immagini già vissute, amate, metabolizzate e idolatrate. Ma è anche un’opera preziosa, a suo modo quasi irriverente verso il genere stesso di riferimento». E ancora: «Al brillante script di Gabriel García Márquez fa da contraltare la nervosa e a tratti geniale regia di Ripstein, che mostra le proprie qualità soprattutto quando utilizza il piano-sequenza attribuendogli un valore emotivo oltre che di messa in scena. Una riscoperta essenziale, per un’opera senza dubbio “minore” (la carriera porterà Ripstein a ben altre vette) ma carica di fascino».

Il giovane Gabo

Gabo-Septimus e la recensione del film di De Sica

Già dalla fine degli anni ‘40, come giornalista, il giovane Gabo si era occupato di critica cinematografica. Lì era nato il suo amore per il grande schermo. Scriveva articoli per il quotidiano El Heraldo a Barranquilla, utilizzando lo pseudonimo di Septimus. Era affascinato dal neorealismo italiano, a partire da Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica, cui dedicò la sua prima recensione, nel 1948. Nel 1954 Garcia Marquez scrisse poi la sceneggiatura del cortometraggio surreale La Langosta Azul. «Il cinema è estremamente concreto – spiegava Gabo nella sua biografia del 2009 -. Anche ai giorni d’oggi, con la grande risorsa degli effetti visivi, è necessaria una grande padronanza. Non solo di tecnica. Ma di narrazione».

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